Ho visto che pubblicate anche storie di parenti dei pazienti e vi invio una considerazione
sul mio lavoro, considerazione che ho fatto recentemente scrivendo degli appunti.
Ho colto infatti il vostro invito a scrivere ciò che provo e ciò che penso perché, come dite voi, la sofferenza è di chi vive una malattia e di chi vive la malattia di una persona cara.
Come ci si sente quando, affetti da malattia grave, si torna al lavoro?
Non per esperienza diretta ma so’ che ci sono molti problemi. Almeno inizialmente, prevale la necessità di “non dire”, di non dire tutto. La persona malata vuole essere percepita come sempre, come prima della malattia e teme le considerazioni altrui, di qualunque tipo, anche quelle affettuose e di protezione.
Anche Salvatore, mio marito, nei primi mesi di malattia, non voleva che i suoi collaboratori, clienti, ecc. sapessero della sua situazione. Poi le cure hanno richiesto comportamenti diversi, assenze di giorni, anche solo di ore ma ripetute, e la vita professionale è diventata visibilmente diversa. Non si poteva non dire.
Mi piacerebbe molto che qualche lettore, se pubblicherete questo mio ricordo, scrivesse un proprio commento, il proprio vissuto nel rientro al lavoro. Spero possa essere un contributo per chi sta per affrontare questo momento.
Io ho due precisi ricordi di come consideravo il mio lavoro nel periodo della malattia di mio marito.
Dopo che ho saputo che Salvatore aveva il tumore al colon tutto era diventato gravoso, perché tutto era lì in quella notizia, tutto solo lì in quel pensiero.
Ricordo anche le sensazioni fisiche che provavo: grande apprensione, tachicardia, disidratazione (la così detta secchezza delle fauci) e grande debilitazione.
Ma non potevo fermarmi, c’erano tante cose da fare, le cure, il lavoro e tutto il resto. E il pensiero era sempre lì, come la polvere ricopriva tutto, rendeva tutto scuro, ogni istante era grigio, sotto la cappa di piombo della diagnosi era impossibile scordare, anche parlando occasionalmente con persone che non avevano nulla a che fare con i miei problemi, con la mia famiglia, tutto era improntato al mio grande turbamento, ogni discorso altrui era per me banale, fuori luogo.
Ricordo che dopo 4 mesi di malattia, al termine di una riunione di lavoro mi ritrovai a pensare con piacere allo sviluppo di una mia attività e mi stupii di quel pensiero positivo. Avevo provato soddisfazione e, seppure gratificata professionalmente, mi sentivo fuori posto con me stessa, come se avessi commesso un illecito. Incredibile, il problema di mio marito non era certo risolto e mi era capitato di pensare ad un successo professionale. Mi sentivo in colpa? Non so, per un attimo mi ero illusa che qualcosa potesse ancora farmi piacere, forse avevo bisogno di compensare il dolore per la malattia di mio marito. Per molto tempo non ho compreso cosa fosse esattamente quella mia sensazione.
Tempo dopo mi capitò un altro pensiero collegato al lavoro, ma ancora non capii cosa la mia sofferenza mi comunicava.
Mi era capitato più volte di lamentarmi del lavoro, per le difficoltà connesse alle responsabilità, ai continui spostamenti, lontano da casa, ecc. Qualche anno prima della malattia arrivai persino a ricattare mio marito. Avevo piacere di acquistare una casetta in montagna, Salvatore non era interessato e io lo condizionai. Gli dissi o comperiamo la casetta in montagna o smetto di lavorare.
Poi un giorno, nelle lunghe giornate in clinica con Salvatore ci trovammo a parlare, con altre persone, del lavoro, del peso dell’impegno professionale.
In quel momento rivalutai la mia visione del lavoro. Pensai al lavoro, con tutti i suoi problemi e difficoltà, come ad una situazione di grande serenità. Pensai che quando si lavora, e non si è sotto l’incubo di una grave malattia, ogni problema ha una soluzione, più o meno semplice, più o meno impegnativa, faticosa, ma ha una via di uscita.
Con la malattia grave la soluzione dipende da molti fattori esterni a noi, dipende dai medici, dalle cure, ecc. non dipende da noi , dai nostri sforzi, dal nostro impegno e questo crea grande tensione e toglie serenità.
Ripensai ai lunghi periodi di lavoro fuori casa, ma anche alla “liberazione” del venerdì sera, con il rientro a casa, in famiglia, nella serenità.
In quel momento, con quei pensieri, avrei volentieri barattato con il cielo dieci anni di intenso lavoro con una giornata di mio marito senza sofferenza.
Solo ora, scrivendo, mi sono resa conto del significato delle mie emozioni, del mio stupore nel pensare ad una gratificazione professionale in presenza dell’incubo della malattia grave.
Per me tutto stava cambiando, anche il modo di percepire la vita. Le soddisfazioni professionali che fino ad allora erano parte della normalità della vita, come le difficoltà, acquisivano improvvisamente rilievo. Da tempo non le consideravo più un piacere. Con la malattia di Salvatore sono cambiate tante cose e anche la mia valutazione del lavoro.
La stragrande maggioranza delle persone che lavorano sono in buona salute e con la loro volontà, energia, capacità raggiungono i loro obiettivi, e più affrontano difficoltà, più si sentono soddisfatti.
Il successo è faticoso da conquistare, mia mamma, milanese doc, diceva che il “pane ha sette croste”: ogni guadagno materiale e morale è difficile da ottenere..................
Che cosa grande il sapore del pane, che cosa terribile l’abitudine, non provare più piacere per quello che si ha, piccolo o grande che sia. Che cosa dolorosa pensare al piacere della normalità quando questa non c’è più.
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